mercoledì 4 marzo 2015

FILIPPO

Crossroads è come la fisica quantistica.
Affermazione avventata, anche perché fisica è una delle poche opportunità che ancora mancano qui dentro, insieme ad acconciature per cavalli ed etimologia delle parolacce turche.
In parole povere, la fisica quantistica ci dice che a dimensioni molto piccole, subatomiche, la realtà non è una sola. Se io, travestito da elettrone (immaginatevi la scena), mi sposto da qui a lì, non ho la noiosa certezza di arrivare proprio , ma ci sono infinite possibilità di evoluzione del tempo e dello spazio, in cui posso trovarmi contemporaneamente dove credevo di arrivare e anche in infiniti altri luoghi.
Quando entri in Crossroads non sai mai dove andrai a finire. In realtà, pensi di saperlo. Ignaro, supponente essere umano. Ma invece no.
Con gli anni ho concluso che non è la porta gialla che dà su via Volta, ad avere poteri soprannaturali. È la gente che abita questo strano luogo.
Entri da ragazzino, come uno che ha cominciato un laboratorio teatrale per provarci con la compagna di scuola, ti ritrovi membro fondatore di una compagnia teatrale, attore con quelli che sono davvero capaci, allievo di scrittura creativa, lettore, musicista, docente, amico, figlio, fratello, fidanzato, membro di qualcosa che da fuori non si potrà mai vedere come si deve.
Crossroads è il crocevia fra il mondo stabile e l’instabile, fra le giornate del mondo reale e quelle in un cortile pieno di scenografie sparse, in una cucina che accoglie gli amici senza orari, su un furgone che rimbomba per la marmitta e per l’arte che trasporta.

Una di quelle cose che quando provi a guardarle dalla strada, la sera, dopo una manciata d’anni, non puoi che pensare: “Be’, wow”.

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