Crossroads è come la fisica quantistica.
Affermazione avventata, anche perché fisica è una delle
poche opportunità che ancora mancano qui dentro, insieme ad acconciature per
cavalli ed etimologia delle parolacce turche.
In parole povere, la fisica quantistica ci dice che a
dimensioni molto piccole, subatomiche, la realtà non è una sola. Se io,
travestito da elettrone (immaginatevi la scena), mi sposto da qui a lì, non ho
la noiosa certezza di arrivare proprio lì,
ma ci sono infinite possibilità di evoluzione del tempo e dello spazio, in cui
posso trovarmi contemporaneamente dove credevo di arrivare e anche in infiniti
altri luoghi.
Quando entri in Crossroads non sai mai dove andrai a finire.
In realtà, pensi di saperlo. Ignaro, supponente essere umano. Ma invece no.
Con gli anni ho concluso che non è la porta gialla che dà su
via Volta, ad avere poteri soprannaturali. È la gente che abita questo strano
luogo.
Entri da ragazzino, come uno che ha cominciato un
laboratorio teatrale per provarci con la compagna di scuola, ti ritrovi membro
fondatore di una compagnia teatrale, attore con quelli che sono davvero capaci,
allievo di scrittura creativa, lettore, musicista, docente, amico, figlio,
fratello, fidanzato, membro di qualcosa che da fuori non si potrà mai vedere
come si deve.
Crossroads è il crocevia fra il mondo stabile e l’instabile,
fra le giornate del mondo reale e quelle in un cortile pieno di scenografie
sparse, in una cucina che accoglie gli amici senza orari, su un furgone che
rimbomba per la marmitta e per l’arte che trasporta.
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